Sarajevo, laboratorio moderno di convivenza religiosa in Europa




Ci apprestiamo a lasciare Sarajevo con un po’ di nostalgia, ultima colazione, kaymak con la marmellata accompagnato dallo squisito pane locale e da un ottimo caffè espresso che gustiamo in una piccola bottega proprio all’ingresso del mercato. La sera prima il Festival del Cinema ci ha regalato, con il film-documentario “The Siege”, un quadro più chiaro della guerra degli anni ’90, dell’assedio della città da parte dei serbi, tutti i luoghi che adesso attraversiamo assumono un’atmosfera diversa rispetto ai giorni precedenti, anche lo stesso mercato, luogo di estasi culinarie, ora ci evoca immagini atroci, è stato infatti il testimone dell’ultimo massacro prima dell’intervento NATO contro la Serbia per porre fine alla guerra.

Il mercato di Sarajevo oggi

      L’orologio nel mercato segna un’ora sbagliata e ci rivela così uno dei grandi segreti di questa città, il suo tempo interiore, lento, scandito dal Muezzin che recita l’adhan dai minareti delle moschee per richiamare i fedeli alla preghiera, dal ribollire del caffè turco nell’ibrik, dall’orologio della cattedrale, dai colpi del ramaio nella sua bottega. Non è un caso che la torre dell’orologio nel cortile della Moschea del Bey (una delle più alte e particolari della Bosnia Erzegovina) mostra il tempo “alla turca” cioè l’ora lunare, un esempio rarissimo nel mondo. In qualche modo ci ricorda che la vita va vissuta, “polako”, senza fretta. Il premio Nobel per la letteratura Ivo Andrić racconta così lo “strano caso degli orologi di Sarajevo”:


“Chi passa la notte a Sarajevo può udire le voci della sua oscurità. Pesantemente e inesorabilmente batte l’ora la cattedrale cattolica: due dopo la mezzanotte. Passa più di un minuto e solo allora si annuncia con un suono più debole, ma acuto, l’orologio della chiesa ortodossa che batte anch’esso le “sue” due ore. Poco dopo si avverte con un suono rauco e lontano la torre dell’orologio della Moschea del Bey, che batte le undici, undici ore degli spiriti turchi, in base a uno strano calcolo di mondi lontani e stranieri. Gli ebrei non hanno un loro orologio che batte le ore…il loro Dio è l’unico a sapere che ore sono in quel momento da loro. Quante in base al calcolo dei sefraditi, quante secondo il calcolo degli askenazi”
Ivo Andrić, Racconti di Sarajevo

Minareto e torre campanaria

Girovaghiamo ancora un po’ per la città cercando di trattenerne avidamente i suoi profumi, le sue voci, le sue immagini e l’odore costante di brace presente in ogni vicolo di questa bella donna, seria e pensosa, sdraiata sul fiume Milijacka, che è Sarajevo.
Un altro caffè nei tavolini di Baščaršija, la piazza principale della città e cuore pulsante di questa “Gerusalemme d’Europa”,  abitata da bosgnacchi musulmani, serbi ortodossi, croati cattolici ed ebrei. Non lontano, nella zona pedonale, uno dei simboli della città, la Moschea del Bey, ospita un complesso con cucina e ostello che per anni svolse la funzione di cucina pubblica dove studenti, viaggiatori, indigenti e bisognosi venivano sfamati e ospitati per qualche notte. 

Sarajevo musulmana

Pochi passi ci riportano in una piccola e splendida Chiesa Ortodossa dedicata agli arcangeli Michele e Gabriele, un gioiello architettonico e luogo di pellegrinaggio per tutte le fedi. Appena difronte c’è l’antico tempio ebraico, costruito nel 1581, che testimonia la presenza di una folta comunità ebraica in Bosnia, determinante nella guerra degli anni Novanta in quanto aiutò la popolazione bisognosa con la creazione di una mensa popolare, una farmacia e organizzando mezzi per far uscire i feriti dalla città sotto assedio. 

Sarajevo ortodossa
Più avanti verso il fiume, la Vijećnica, la Biblioteca Nazionale, è uno dei simboli degli oltre mille giorni d’assedio, il 23 agosto 1992 venne colpita da bombe incendiarie e bruciò con i suoi volumi e le antiche travi di legno. La polvere delle  pagine bruciate si posò drammaticamente su tutta la città.
Oggi l’edificio, che ha subito un dubbio restauro, ospita il municipio, ragione originaria della sua costruzione nel 1890 ad opera dei Turchi.

Sarajevo cattolica

Ma è ora di andare, per dirigerci all’aeroporto chiamiamo un taxi, una soluzione in generale piuttosto economica ma anche utile per raggiungere la periferia della città, quella più colpita dalla guerra, e visitarla con discrezione senza rischiare di cadere nella morbosità cocente in cui i palazzi tappezzati di fori di proiettile e buchi di mortaio possono gettare molti turisti “affamati di noir”. 

vecchie "cicatrici" di mortaio a Novo Sarajevo

È anche frequente trovare tassisti che hanno voglia di chiacchierare e raccontarsi attraverso la loro città, cosa che stupisce molto se si è abituati alla corrispettiva categoria nella capitale italiana. Così incontriamo Mahir, è molto assonnato (qui i turni sono di 24 ore con due sole pause), con un po’ di titubanza entriamo nella sua macchina e subito ci chiede di dirci sinceramente com’è stato il Festival del Cinema, dando per scontato che ci trovassimo a Sarajevo per questo. Ci racconta che i suoi figli 22 e 24 anni da quando è cominciato il festival non hanno mai dormito. La città infatti in questi giorni è piena, oltre che di proiezioni in tutti gli spazi adibiti, anche di party e i giovani si riversano in strada fino a tarda notte. 

i luoghi, durante la guerra ed oggi (foto Museo Nazionale)
    Facendo un rapido calcolo mi rendo conto che i suoi figli sono stati nati appena dopo la guerra e le sue parole cominciano a raccontarmi una storia diversa, più lontana, una storia di dolore e rinascita. La  famiglia di Mahir è di Sarajevo da generazioni, è musulmano ma ci tiene a dire che non è un integralista, beve anche alcol e che in moschea ci va due o tre volte l’anno, ma che se qualche musulmano viene qualcuno a casa lui non beve e non mangia carne di maiale “che problema c’è? È una questione di rispetto”. Ci mostra la foto della sua famiglia, commosso, “It’s all my life”, dice. Continua a scorrere le foto sul suo smartphone, arriva a quella di suo figlio, che ha 24 anni e sta facendo un master in economia a Vienna, al suo fianco nella foto una bellissima ragazza in minigonna, “è serba” ci dice, “io e mia moglie non vediamo l’ora che facciano un figlio, ho bisogno di diventare nonno”. In una sola frase tutta la voglia di ricominciare di una città dove non è la sola “convivenza pacifica” ma è il profondo rispetto a far sì che musulmani, cattolici ed ebrei possano sentirsi a casa, la stessa.

Caterina Acampora

Commenti